Raccontare il luogo dove si è nati, dove il tuo cognome ha le sue radici più profonde e, soprattutto, dove il tuo sogno vorrebbe compiersi definitivamente, vi assicuro non è così scontato. La difficoltà sta nel trovare un equilibrio tra le spinte emotive verso il bello e quelle integerrime che diventano voci di ribellione di una sua figlia costretta a vivere lontana per ragioni socio-professionali.
Perché oggi l’Etna vive il suo Rinascimento più sentito, i suoi vini vengono paragonati ai nebbioli di Barolo e anche un vino d’annata viene venduto ad un prezzo che farebbe gola ai ricercatori dei grandi ammortamenti chiamati soci occulti di capitali.
Eppure la Terra Nera continua ad avere il grande dilemma di non riuscire del tutto a creare un substrato sociale solido in cui il lavoro manuale venga retribuito in maniera regolare e regolarizzata, ma questi sono temi che neanche più la sinistra italiana tratta, quindi finisce qui la polemica (potete continuare a leggere e respirare senza affanno).
Per scrivere dell’Etna sono andata alla ricerca di un vero custode che, al di sopra delle tendenze dei #winelovers, vive per rendere indietro a questa terra la bellezza e il sostegno che ogni giorno la stessa gli regala. Averlo conosciuto non è bastato, ho dovuto leggere i suoi libri e avere un mese di rielaborazione di tutto ciò che ho vissuto in Sicilia tra dicembre e gennaio.
E ora siamo qui a raccontare ciò che sappiamo di Salvo Foti e i suoi Vigneri.
In un mondo di vigneron laureati alla corte suprema dei radical chic, Salvo si pone in controcorrente per la puntualità, la scientificità e la tradizionalità dei ragionamenti discussi durante i nostri incontri. I suoi vini sollecitano il gusto attraverso la pulizia e la ricerca di un lavoro di fino che tende alla perfezione, ma sono sicura che la parola di un vero sommelier riuscirà a descrivervi meglio la complessità dei suoi nerello mascalese e carricante,
scusatemi, sono solo un’Oste, per giunta senza neanche troppi tatuaggi fighi
Ciò che maggiormente mi ha colpito di Salvo è la sua naturale propensione per la salvaguardia dei sistemi gravitazionali attorno cui ruota il far vino etneo, ossia il sistema ad alberello e il palmento.
Secondo quanto ho imparato leggendo “Etna, i vini del vulcano”, il sistema ad alberello è ciò che meglio risponde a quelle esigenze proprie di Foti per costruire una vigna armonica non solo dal punto di vista estetico ma soprattutto da quello vegeto-produttivo. Le viti coltivate con questo antico metodo sono costrette a svolgere la propria attività radicale ad una maggiore profondità, nutrendosi dal substrato minerale in modo significativo,
come quando trovi la mineralità in vini di pianura da viti vecchie di cinque anni
L’alberello permetterebbe la coltura delle viti in quegli ambienti in cui la meccanizzazione sarebbe impossibile o dannosa per i suoli, creando un sistema socio-economico che permetterebbe ai coltivatori-custodi di valorizzare un paesaggio che altrimenti sarebbe denaturato.
ed ancora, l’equidistanza tra le viti e la loro altezza, permette alla pianta di godere della luce diretta e indiretta del sole proveniente dalla rifrazione del terreno, escludendo quasi del tutto l’ombreggiamento tra pianta e pianta.
se sbaglio corregetemi che io leggerò ancora una volta.
Tuttavia, Foti stesso riconosce i limiti del sistema ad alberello riconducibili alla poca economicità del metodo: la non meccanizzazione dei lavori in vigna comporterebbe un alto costo di manodopera che deve essere formata sulla specificità della gestione del vigneto, nozioni che spesso sono ereditate dalle generazioni passate ben lontane dalle capacità della bassa manovalanza inesperta e a basso costo; attenzione, si parla di professionalità e competenze tecniche specializzate, che non si tinga il discorso con toni razzisti o classisti,
Noi siamo razzisti solo verso gli imprenditori affetti da handicap vari nei confronti del loro personale!
In quest’ottica dovrebbe essere interpretata la nascita nel 2009 del “Consorzio dei Vigneri”, una rete di diverse aziende dislocate per la Sicilia orientale che condividono con Foti la valorizzazione del sistema ad alberello, dei vitigni autoctoni, della formazione di nuovi viticultori per una salvaguardia dell’ambiente davvero cosciente e partecipativa.
Dicevamo che, insieme all’alberello, il secondo emblema della produzione etnea è il palmento:
“..il luogo in cui il territorio (inteso come fattori biologici, geografici, climatici e geologici) e la cultura (intesa come tradizione, tecnica, esperienza vitivinicola) degli uomini si incontrano per creare e tipicizzare un vino” (Foti 2005:27)
Tutto questo prima che le attuali norme europee HACCP entrassero dentro gli opifici di trasformazione fermentativa e alcolica. Perché poi arrivarono gli anni dell’ultimo decennio del vecchio millennio e l’Unione Europea decise che venne l’ora di svecchiare le vecchie cantine dalle loro muffe e dai loro paste madri annidate non salubremente nei legni degli strumenti della Signora Tecnica Etnea. Quindi, tocchi di luce riflessa in splendide piastrelle lavabili a prova di ogni tipo di norma igienico-sanitaria, ovviamente per chi potesse permetterselo; gli altri sono stati costretti a vendere, o a provare a non svendere considerata la conta degli annunci appesi alle porte sbarrate di vecchi poderi abbandonati oggi sull’Etna.
Io non sono un enologa e ho ancora tutto da imparare, posso solo pormi domande ingenue e spontanee. Mi chiedo, ad esempio, secondo quale principio tecniche radicate nella coscienza di una comunità che formano il senso di comunità stessa diventino ad un certo punto della storia umana nocive per la specie stessa. Perché se io domani dovessi comprare un palmento e riscoprire il senso vero del mio nome e della mia origine, riprendendo una tradizione che se non viene protetta rischia di non essere tramandata ai figli che su quella terra verranno, rischio di ricevere una multa infinita da parte di un organo che si dimostra cieco di fronte alla parola che per metà lo definisce, comunità. E soprattutto,
come hanno fatto i miei nonni a riuscire a sopravvivere ad un succo che per gravità attraverso stretti canali di pietra lavica da mosto diventava fermentato per chiedermi ogni giorno quando farò un figlio???
Mi dispiace non avere foto del palmento dei Vigneri, venendo a conoscenza del vieto europeo abbiamo cercato di sdrammatizzare a modo nostro…
Per capire meglio il gioco di magia nell’orchestrare un palmento invitiamo alla lettura del prima citato Etna, i vini del vulcano (Maimone Editore, 2005), un libro che illustra bene la specificità vitivinicola di un vulcano sotto la firma di un maestro di quel territorio. In fondo, credo che si possa leggere un vino in diversi modi. Vi sono letture che rispondono al gusto dell’abitudine, letture che rispondono alla norme europee, poi quelle degli hype e a tutti gli hurters di vini crispy, funky e crunchy (che noi amiamo!)
Poi ve ne sono altre che necessitano di un’aderenza alla storia di quel territorio per capirne il senso del custodire insinuato in sé.
Etna ti saluto prendendo spunto e forza da queste parole di un mio paesano conosciuto attraverso il libro, Giovanni Casella pronunciate prima che io nascessi, nel vicinissimo 1986 (pensate a quanto sia ancora giovane) per il convegno dal titolo Evoluzione della Viticultura Etnea:
“Il nostro, e ci tengo a precisarlo, non vuole essere solo un discorso di conservazione e tutela del passato, di ciò che sono le nostre radici storiche, destinate a reperto da classificare e basta, ma il nostro intento è di inserire la nostra cultura, che è quella contadina e vitivinicola, in un contesto più vasto di utilizzazione e rivalutazione, rendendola funzionale alle moderne esigenze economiche della società”.
Grazie, Esmeralda Spitaleri
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